LIBROCONTIGUO

LibroContiguo, 1997, a cura di Calogero Barba

 

 

LIBROCONTIGUO

a cura di CALOGERO BARBA

testi di: Francesco Carbone, Luciano Caruso, Vitaldo Conte, Eugenio Miccini

 

Elenco Artisti LibroContiguo

Fernando Andolcetti – Enzo Angiuoni – Ignazio Apolloni – Calogero Barba – Umberto Basso – Angelo Bellobono – Tomaso Binga – Irma Blank – Francesco Carbone – Gianni Caruso – Cosimo Cimino – Luciano Caruso – Roberta Civiletto – Letterio Consiglio – Vitaldo Conte – Tonia Copertino – Nicolò D’Alessandro – Giancarlo Digrandi –  Juan Esperanza – Maria Pia Fanna Roncoroni – Giò Ferri – Fernanda Fedi – Alfio Fiorentino – M. Cristiana Fioretti – Antonio Fontana – Elisabeth Frolet – Gino Gini – Wolfango Intelisano – Michele Lambo – Lee Jin Hee – Alfonso Lentini – Oronzo Liuzzi – Arrigo Lora Totino – Ruggero Maggi – Mauro Manfredi – Stelio Maria Martini – Nelida Mendoza – Eugenio Miccini – Maurizio Nannucci – Filippo Panseca – Enzo Patti – Franco Politano -Giuseppina Riggi – Peppe Sabatino – Salvatore Salamone – Kei Sazen – Alfonso Siracusa – Franco Spena – Delfo Tinnirello – Vincenzo Trapasso – Agostino Tulumello – William Xerra-

    

La scrittura del vedere nel separato e nel contiguo

Questa mostra, voluta da una Galleria d’Arte di periferia, oculata e attiva nelle scelte e nelle proposte di rassegne informative sull’arte contemporanea, è dedicata alle scritture visuali raccolte, in questo caso, in pagine di unico formato (40×40) in modo da ottenere “un libro contiguo” capace di caratterizzare un particolare genere di Librismo, quale testo e contesto di un poetico multimediale rispetto alle componenti che lo strutturano: segno, segnali, scritture, immagine, materia, forma, gesto, colore e altro ancora.

E’ necessario tuttavia considerare a questo punto come la scrittura affidata al visuale, non sia stata sottoposta a tutt’oggi ad un rilevamento adeguato e sottile di una visività meno generica, ma rivolta invece a scandagliare i meccanismi più complessi del vedere, fisiologico e antropologico insieme, allo scopo di cogliere, nella loro disorganica promiscuità, le strutture non più connettive degli elementi prima citati (segno, segnali, immagine, materia, firma, gesto, colore, ecc.), di cui “Il librismo contiguo” si compone.

Allo stesso modo non è stata ancora rilevata una appropriata genesi della scrittura visuale movendo da una più diretta scomposizione e ricongiunzione delle parti vitali della linguistica in relazione alla scrittura e ai retaggi di un oralità incombente.

Così, il senso del segno non è più identificabile con l’uso della traccia, come non è più connesso a quello del linguaggio orale. Vi sono infatti numerosi sistemi di tracce decodificate che funzionano, come nel caso delle scritture visuali, al di fuori di ogni riferimento linguistico.

Infatti, il dato semiotico del segno scritturale visivo, preserva la scrittura dall’inserimento in un convenzionale sistema di comunicazione, in modo anche di continuare a domandarsi se la scrittura è un medium o un codice, o uno strumento più o meno sottomesso al linguaggio parlato, oppure – come osserva Derida, un “significante di significante”.

La scrittura, dunque, non è né un medium né un codice, e ciò conferma la possibilità di decostituirla e frammentarla per riutilizzare di essa segni grafici e fornirli al visuale di una disorganica scrittura nella totale libertà delle combinazioni segniche.

Cosi, la scrittura ordinaria è costituita dall’incontro di due forme di linguaggio, uno fonico e l’altro di tracce. Le relazioni tra i due tipi di linguaggio sono variabili. Si possono pensare scritture puramente mitografiche o, come dice I. J. Gelb, semasiografiche, dove i segni esprimono oggetti o rappresentazioni mentali, lasciando alla parola il compito di intervenire come semplice commento o decifrazione libera dei simboli. All’estremo opposto si possono pensare scritture puramente fonetiche, dove ogni fonema e i suoi tratti pertinenti sono designati da tracce appropriate e invariabili.

L’avvento della scrittura ha contribuito a stabilizzare i linguaggi orali o a rallentare notevolmente la loro evoluzione. I linguaggi senza scrittura tendono a cambiare e a differenziarsi rapidamente.

La stabilizzazione è dovuta all’introduzione della memoria, che l’impiego della traccia comporta. In particolare non esiste che si possa mettere a repertorio senza qualche forma di traccia. La parola, specialmente, sembrerebbe un apporto essenziale della scrittura. Un linguaggio solo orale può a rigore fare a meno della nozione di parola. La parola è stata per lungo tempo considerata come l’unità significativa di base del linguaggio, ma l’analisi della catena parlata ha portato la linguistica moderna a ricercare unità ancora più piccole: fonemi (unità non significative), morfemi (unità significative) o anche monemi grammaticali e monemi lessicali.

Il logogramma, cioè la parola scritta con grafia corretta, deve essere considerato come la più piccola unità significativa della scrittura.

Dal punto di vista della comunicazione, si può considerare la parola come l’insieme semantico captato e interpretato a colpo d’occhio.

Le dimensioni semantiche di questo insieme possono essere molto diverse, secondo che si tratti di una scrittura strettamente logografica o sillabica, oppure alfabetica.

Il carattere logografica della scrittura è attestato, per esempio, dagli errori di battitura. Nella scrittura a mano, la parola risulta un tracciato continuo che si alfabetizza in rapporto inverso alla capacità dello scrivente di legare il testo al discorso. E’ considerata come segno di intelligenza una scrittura “combinata”, dove i singoli segni dell’alfabeto amalgamo una grafia d’insieme. Così, nella prospettiva della scrittura, quest’ultima si rileva un linguaggio paradossale, poiché si serve di un linguaggio per trascriverne un altro. In altri termini, nel suo funzionamento normale (ma sull’esempio dei poeti lettristi se ne possono immaginare altri) il testo, in rapporto al discorso, si dispone in una certa posizione di mal definita subordinazione. Il linguaggio di tracce può quindi avere funzioni diversissime, secondo che serva a trascrivere il più fedelmente possibile il linguaggio orale. Oppure a trasmettere nel modo più diretto la propria informazione. Si distingueranno allora due funzioni basilari del testo: la funzione discorsiva e la funzione documentaria.

Ed è proprio a questo punto che l’intervento di un originale dissesto logografica visivo ha annullato la funzione discorsiva e documentaria del linguaggio di tracce, per attivare una scrittura basata su una nuova ricerca formale; scrittura che vuole essere innanzitutto registrazione visiva di una serie di componenti, come movimenti, suoni, intensità, direzioni, colori, valenze semantiche, immagini espresse anche attraverso metagrafie inventate o ricavate da simbologie tecniche e scientifiche.

Ricerca della scelta e della disposizione degli elementi tipografici, accostati con variazioni continue di carattere, dimensione, di direzione, di colore, creando una sorta di identità formale tra significante e significato.

Una scrittura intesa cioè, come unica espressione di segno visivo e verbo visuale sottratti ad ogni produzione di senso compiuto. Vi può essere infatti un uso diverso di strumenti tradizionali e la possibilità di adeguare l’espressione ad una civiltà che non è solo della parola e dell’immagine, ma che recupera e utilizza nello stesso tempo tutti i tipi di segni, non sempre finalizzati al proprio isolato apparire, ma manifestato nel contesto di altri elementi o supporti, e spesso realizzato nel o col colore della pittura, come diretto linguaggio del quadro. Rivisitando, infatti, le opere di Capogrossi, Twombly, Novelli, Sanfilippo, Accardi, Perilli, Sordini, Vermi, A. Ferrari, opere affidate prevalentemente all’espressione del segno, si può dedurre che dalla seconda metà degli anni cinquanta, la pittura recava un esplicita componente verbale. Essa diveniva cioè, sede di incontro con la scrittura mediante un supporto che intrecci segni, attiva elementi plastico-figurali, trasforma il testo in texture.

Scrittura visuale, dunque, anche come crisi del predominio culturale della Parola intaccato dall’azione dell’immagine accattivante e superficiale, imposta aggressivamente dalle molteplici metamorfosi della cultura di massa.

Anche la Poesia, massima sublimazione della parola, cadute le antiche ripartizioni in “lirica”, “epica”, “drammatica”, e i caratteri distintivi nei confronti della prosa (le rime, la metrica, i versi) ha finito per assumere nelle proprie strutture dapprima la dimensione visuale ed infine l’immagine stessa. Poesia visiva o Tecnologica, Concreta, Singlossica.

Così, l’impegno della poesia visuale nell’ambito della cultura italiana, si può riassumere in due posizioni a cui corrispondono due diverse linee di tendenza: nel primo caso l’individuazione e l’allargamento delle aree semantiche, potenzialmente comprese all’interno del linguaggio stesso, mediante la ricerca de nuovi materiali espressivi, grafici, matrici, iconici; nel secondo caso l’indagine si propone una decodificazione e un uso alternativo dei linguaggi iconico-verbali elaborati dai mass media, smontati come meccanismo di cui si voglia rendere manifesto il funzionamento.

All’interno di questa contrapposizione fin troppo schematica, la collocazione delle posizioni dei singoli operatori o gruppi è assai più complessa ed elaborata, tanto  che  può  sembrare più  giusto articolare  secondo il  tipo  di  materiale  segnino utilizzato, tenuto anche conto che ciò che accomuna tutte le esperienze è l’uso cosciente di qualunque tipo di segno, verbale e non verbale, organizzato secondo nuovi codici o alterando quelli preesistenti, facendo interagire tra loro segni tratti da codici reali o immaginari. Infatti, a questo criterio risponde la collocazione delle posizioni dei materiali che formano “Il libri contiguo” o l’ipotesi di un particolare genere di Librismo espresso da questa mostra.

Un Librismo, come molti altri che deriva in un certo senso dall’evoluzione di quello elaborato da Arturo Martini nel lontano 1918, conosciuto con il nome di “Contemplazioni”. Il primo libro semantico della storia dell’arte. “Geniale incrocio di codici – scrive al riguardo Mirella Bentivoglio – acuta e intelligente teorica in questo campo, nonché autorevole operatrice nel campo della scrittura visuale. Così, “il Libro contiguo” di questa mostra è anch’esso espressione di una collocazione di posizione dei rispettivi materiali prodotti dai vari autori.

Ed chiara estrazione artistica-culturale di ciascun artista partecipante, a parte la notorietà di quelli storicamente riconosciuti.

In un settore grafico pittorico di possibile distinzione, potrebbero essere inclusi, quindi, le opere di Juan Esperanza, Elisabetta Frolet; Nicolò D’Alessandro, Roberta Civiletto, Alfonso Siracusa, Delfo Tinnirello, Tonia Copertino, Enzo Angiuoni, Cosimo Cimino, Giò Ferri, Fernanda Fedi, Gino Gini, Oronzo Liuzzi, Luciano Caruso.

In un versante plastico cromatico più rilevato, potrebbe essere collocate le scritture di Vincenzo Trapasso, Letterio Consiglio, Lee Jin Hee, Michele Lambo, Calogero Barba, Peppe Sabatino, Maria Pia Fanna Roncoroni. Piuttosto autonomi, privi cioè di possibili formalizzazioni rischiosamente meno appropriate, si rileva la pagina di Ruggero Maggi, la carta di sottili archi di scrittura musicali di M. Cristiana Fioretti; la pagina di Key Sazen, le vibrazioni intime di Vitaldo Conte; le “Scritture di Sensi” di Giuseppina Riggi; le brevi soste cromatiche-percettive delle forme di Franco Spena; la lettera chiusa-aperta di Gianni Caruso, la viola traslata di Fernando Andolcetti; le identità incontaminate di Alfio Fiorentino; le cancellature virtualmente assiomatiche di Irma Blank; l’empirismo scritturale di Stelio Maria Martini; l’estetismo-collage di William Xerra; il tempo logrografico di Agostino Tulumello; le riquadrature materico-polisenso di Alfonso Lentini; l’alito di piume nel gesto della scrittura di Nelida Mendoza; la rarefazione come textum di Salvatore Salamone; la scrittura esplicita di Ignazio Apolloni; criptogrammi e colori di Fernanda Fedi; esercizio di pittura con la scrittura di Gino Gini; Maurizio Nannucci ipotizza l’astratto transitando nell’ordine, come nel suo opposto; Concreto silenzio nella concretezza ineludibile di una voce di Arrigo Lora Totino; Filippo Panseca riprende la pittura attraverso il computer. Molto probabilmente questa rassegna sarà ospitata da altre Gallerie in altre città del Nord italia. Bisogna dare atto e riconoscere l’impegno, la capacità, il lavoro svolto dai titolari del QAL’AT, i noti artisti Calogero Barba e Peppe Sabatino nella ideazione, preparazione e realizzazione di questa importante iniziativa, soprattutto da parte di Barba che l’ha curata sin dall’inizio in ogni minimo particolare, mettendosi in contatto diretto con ogni singolo autore.

 FRANCESCO CARBONE 

LIBRO-OPERA

Da sempre la scrittura svela e nasconde, copre una realtà e ne accende un’altra dal gesto che la fonda, per quanto questo possa essere incerto, proprio perché scandisce nascite e distanze e si vota alla sua mutazione/trasmutazione nella materia. 

Il libro-opera è frutto dell’esasperazione di queste consapevolezze, che da sempre appartiene alla scrittura, ma che si è manifestata con maggiore forza a partire dalle neoavanguardie degli anni sessanta. 

A poco alla volta, cominciando da questa data, il libro-opera, come materia sensibilizzata dalla volontà dell’artista, si trasforma da contenitore indifferente a mezzo non indifferente.

Calcolando tutte le sue caratteristiche costitutive, la “scrittura oggettuale” dell’arte contemporanea approda dalla pagina e dal foglio al libro quasi per necessità interna di passare dalla grammatica alla sintassi del visivo, dispiegando un’arte combinatoria di segnali ed oggetti, capace di concretizzare un comportamento estetico sempre più avvertito e affinato da parte dell’autore.

Il libro-opera aspira ad essere una traccia senza residui di una “parola” che si muta nella forma del silenzio scrittura, ponendosi come “frammento totale” di un orizzonte immaginario e non più solo come normale mezzo di un senso sempre più improbabile e alienato. 

Negandosi al suono, alla voce e al significato comune, la scrittura oggettuale del libro-opera si pone volutamente sul bordo del fuori, si fa oggetto di apparizioni, gioca la sua morte negli interstizi del sapere e dell’arte e si scava una strada nel “corpo” dell’uomo e del mondo.

LUCIANO CARUSO

LIBROGGETTO

Si è ormai scritto molto sul libroggetto, specialmente da parte di chi lo fa. 

E’ un costume delle avanguardie “ storiche” e delle cosiddette neo-avanguardie, specialmente di quelle esperienze estetiche che, abbandonando i canonici generi letterari, hanno scavalcato le severe partizioni attestandosi in quelle zone di confine in cui esperienze e linguaggi diversi si combinano, si sovrappongono e perfino si elidono a vicenda. Intendo quelle forme dell’arte contemporanea “multimediali” che, appunto, fanno interagire più codici espressivi diversi.

Come è accaduto per il cinema, la più grande e moderna delle arti multicodice, le capacità di approntare un metalinguaggio critico è stata lenta e faticosa e forse non ancora del tutto soddisfacente. 

Spesso, di fronte ad un’arte che impegna più competenze la risposta della critica è stata scettica o titubante e perfino arroccata sull’inutile difesa delle forme tradizionali dell’espressione artistica.

Questo è stato anche il destino del libroggetto. Pochi e lodevoli autori se ne sono occupati, pochissimi i cultori.

Scrivo questa nota senza conoscere le opere; devo quindi necessariamente parlare del libroggetto in maniera generale, senza entrare nel discorso puntuale, insomma sulla qualità delle cinquantina di opere raccolte.

Il senso, comunque, di questa attività è l’estrema libertà degli autori, che ovviamente si esprimono anche con altri mezzi. 

E’ c’è anche un motivo non del tutto consapevole; quella sorta di amore-odio verso il libro, luogo e oggetto di tante nostre liete e tristi avventure intellettuali.

Il piacere di violentarlo, di stravolgerlo, di mutarne le materie e le forme, le scritture e insomma tutta la sua fisicità, di trasferirla stravolta nei territori allusivi della simbologia culturale. 

Spesso noi che pratichiamo questo gioco estremo siamo certi che non avremmo altro modo di “dire o non dire”, di significare, sia pure con il linguaggio dell’arte, cioè in maniera ambigua, ciò che non potremmo altrimenti. 

Può anche accadere che qualche opera non sia proprio dettata dalla “necessità” estetica, ma un suo surrogato. Ma il più delle volte si tratta di autori che affidano a questa singolare esperienza la notifica della loro poetica o, come è accaduto non di rado nella nostra storia artistica, della loro unica attività creativa. 

 EUGENIO MICCINI


 


 

 

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