Testi Critici

Estratto dell’intervento di Vinny Scorsone in occasione della conversazione full immersion tenutasi il 14 settembre 2002 a Isola delle Femmine presso la terrazza dell’ex macello comunale

 

Incipit per un ritratto di Gruppo

Io credo sia il caso di spiegare il perché noi siamo qui (biblioteca comunale di Isola delle Femmine),  questo pomeriggio, a parlare della cosi detta “scuola di Caltanissetta” e del perché ci siamo decisi a fare una manifestazione del genere che comprendesse, oltre alla mostra allestita presso la galleria Studio 71 di Palermo, anche una conversazione full immersion.

Un primo motivo potrebbe essere perché da anni seguiamo il loro lavoro e siamo convinti della loro validità, un secondo motivo perché sono tra i pochi che fanno gli artisti con coscienza, serietà e impegno, un terzo motivo perché, per quanto sia loro possibile, non si perdono una mostra fuori dalla loro provincia.

Girano, studiano, prendono contatti con gallerie e critici d’arte, si confrontano fra di loro e con il lavoro di altri artisti.

Proprio per la passione che mettono in questa loro attività, hanno saputo creare occasioni culturali, laddove non c’erano, per svegliare la loro città dal sonno obliante che pervade quasi tutti i centri meridionali. Già alcuni decenni or sono alcuni di loro si resero editori della rivista Foglio d’arte prima, e Cartagini dopo, che uscirono, rispettivamente, per sette anni l’una e circa quattro l’altra. Riviste che riuscirono a raggiungere considerevole tiratura e alle quali collaborarono personalità della cultura nazionale.

Conclusasi l’esperienza editoriale fondarono l’Associazione Culturale Marcel Duchamp a Caltanissetta  organizzando in questo modo mostre, concerti, rappresentazioni, facendosi, insomma, promotori di sé stessi e dell’arte. Dopo l’Associazione Duchamp recentemente è nata Qal’ at arte contemporanea sempre con sede in Caltanissetta. Questa premessa è indispensabile per capire quanto di determinante vi sia in questi artisti, indipendente dal luogo dove svolgono la loro attività. E’ un gruppo attento alle nuove tendenze dell’arte oggi e a ciò che il mercato propone e sicuramente   sa proporsi promovendosi attraverso pubblicazioni e mostre nelle diverse città italiane, con qualche intervento all’estero.

Ma cosa accomuna gli artisti ai quali è dedicata questa conversazione? Per prima cosa, credo, l’importanza data al segno, alla scrittura. Sono stati a contatto con Francesco Carbone, hanno continui contatti con Eugenio Miccini, Mirella Bentivoglio e  Ignazio Apolloni (solo per citarne alcuni), che hanno fatto della poesia visiva un importante strumento artistico. Certamente ognuno di loro dà al segno valenza diversa ma tutti hanno il bisogno di sottolineare le loro opere con una lettera, una frase, un simbolo, quasi a ricavarlo dagli antichi graffiti preistorici, dai geroglifici egiziani, dalle tavolette sumere. E’ cosi che, per esempio, Salvatore Salamone  tratta la scrittura come impronta dandole l’importanza di un rito da eseguire, come se si componesse una preghiera; un’impronta lasciata nella pulsante e malleabile argilla con un’operazione che è rimasta immutata nei secoli. Nel guardare alcune sue opere si ha come l’impressione di stare contemplando le tavole delle sacre scritture o addirittura i dieci comandamenti o comunque dei codici antichi scritti in un linguaggio a noi incomprensibile ma che sicuramente sentiamo molto vicino. Sembrano caratteri cuneiformi che riprendono i segni punici o assiro-babilonesi. Se poi a ciò si aggiunge il fatto che molto spesso i singoli caratteri sono formati da pezzetti di legno, farro e altra materia organica e in un certo senso viva, il messaggio emotivo si carica maggiormente. Se Salamone utilizza la scrittura-non-scrittura in questo modo, quindi con una ripresa archeologica, di concezione completamente diversa è quella di Franco Spena (critico d’arte, letterato e poeta) il quale indaga i meccanismi della pop art americana, della pubblicità, tagliando, componendo, sommergendo e mischiando le parole della nostra quotidianità per poi ricomporle in un caos colorato. Le sue opere, così costruite, sembrano divenire tanti idoli, come lui stesso le definisce. Idoli di questo tempo che va di fretta, confusionario, in cui il bombardamento mediatico riesce a farci rimanere insensibili davanti ai più atroci disastri, ma che ci coinvolge emotivamente, da spettatori,  in un caleidoscopio di immagini e lettere che hanno perso il loro significato originario ma non la loro identità. Caratteri come figure, simboli di ciò che siamo.

Se il mezzo usato da Spena è quello dei caratteri, il più delle volte pubblicitarie ricavate da ritagli di lattine, giornali o altro, il segno di Giuseppina Riggi è, per così dire, criptato, derivante direttamente dallo studio, per sintesi, del corpo umano. La Riggi dichiara espressamente nei titoli dei suoi lavori ciò che ella vuole rappresentare. Sono scritture di sensi, ma come si fa a descrivere una sensazione visivamente? Quest’artista ha creato un suo codice, ha isolato nel corpo femminile, l’unico di cui conosce ogni singolo palpito, le zone più sensibili e le ha trasformate. Sono le curve del collo, delle spalle, dei seni, dei fianchi e del pube quelle che vengono rappresentate nei suoi quadri, non c’è da stupirsi quindi se lei stessa li intitoli campiture erogene.

Accanto a lei troviamo Calogero Barba colui il quale è sempre impegnato nell’opera di documentazione e di promozione di sé stesso e dei suoi colleghi. I suoi lavori sono profondi, legati anch’essi a quel mistero che è la scrittura, da qualche tempo ricalcante i simboli digitali. Le opere di Barba rimandano a riti antichissimi. Anche per lui, come per gli altri, i quadri diventano icone arricchite dall’utilizzo di pigmento puro, accese dalla luminosità degli azzurri e dei gialli. I suoi sono simboli di una profondità spirituale carichi di un bagaglio culturale molto vicino, se me lo si permette, allo stile letterario di Italo Calvino. Perché prendo a prestito la figura di questo scrittore? Perché è un autore che trasuda cultura da ogni singola parola  facendo percepire, pur usando un linguaggio normalissimo, la sua conoscenza. Ecco! quello che mi accade con Calvino mi accade con i quadri e le installazioni di Calogero Barba. Le sue opere sprigionano una profonda forza psichica, una intelligenza culturale che da questo punto di vista è molto diversa da quella di Giuseppina Riggi, che è una intelligenza emotiva, o quella degli altri esponenti del gruppo.

Molto vicino a Barba e se vogliamo anche a Spena è l’opera di Michele Lambo. Rigoroso ma con una grande voglia di comunicare. Lo fa servendosi di vecchi caratteri tipografici, di pagine di un libro aperto (è forse il caso di citare l’opera più suggestiva, libro celeste, esposta in questa mostra, un’opera fortemente spirituale che si rifà probabilmente al libro celeste per eccellenza, il Corano), di una foresta grafica in cui colori e simboli si uniscono. Simbolo nel simbolo, colore nel colore pervenendo a volte ad una contaminazione di stili che potrebbe anche risultare spiazzante. Anche Lambo si serve di impronte, fa delle lettere un motivo decorativo indelebile cercando di bloccare il suo essere nel mondo.

Di Beppe Sabatino invece si può dire che in questi ultimi anni il suo lavoro è abbastanza cambiato. Ora vive a Milano e ha corretto la direzione del tiro del suo lavoro. Ha accantonato la produzione tradizionale, che riprendeva alcuni elementi etnici della sua terra, ora usa il computer, lavora in digitale, ma anche in questo caso è il simbolo a prevalere, il segno come sottolineatura di una situazione visiva che diventa esso stesso simbolo di una società contro la quale ci si schianta. Sabatino ricerca sempre un collegamento con l’arte di un passato più o meno recente attraverso l’utilizzo dei codici, o delle regole, di certa pittura.

Ultimo del gruppo (ma solo in ordine alfabetico) è Agostino Tulumello.  Anche nelle sue opere nulla è lasciato al caso, non un gesto fuori posto ma tutto studiato con una precisione a volte snervante. I suoi quadri sono frutto della pazienza, della capacità di intuire la struttura complicata delle cose, di una trama, e di ricostruirla, di inventarne una nuova entro la quale far perdere lo sguardo dello spettatore. Anche la sua è una finzione di qualcosa che non c’è; una specie di trompe-oeil che mobilita la nostra percezione. Accanto a questi quadri se ne collocano altri nei quali si riscontra una sorta di sua vocazione dell’imbalsamatore poichè Tulumello blocca il materiale organico nella cera, contornandolo di bende.

I materiali usati dal gruppo sono sempre gli stessi ma utilizzati in maniera personale. Questi sette artisti potrebbero tranquillamente riuscire a imporsi autonomamente (e a volte lo fanno esponendo singolarmente in mostre personali) senza far ricorso alla forza del gruppo (che per alcuni potrebbe anche essere un aspetto negativo), ma loro credono in questo stare uniti e non è certo per debolezza personale o per altro. Fino a qualche anno fa i gruppi erano normalissimi, si pensi agli impressionisti, ai dadaisti, fino a più recenti gruppo dei 6 artisti di Torino, MAC, Zero, Fluxus,   non ultima la “scuola di Palermo” etc., oggi invece prevalgono le singole figure di artista. Forse è anche per questo che ci fa piacere avere questi artisti qui oggi, uniti e ad un tempo distanti, poiché, pur lavorando insieme, in un medesimo ambito, sono riusciti, per quanto possibile, a mantenere intatte le loro note distintive consci del loro valore individuale.

Isola delle femmine, 14 settembre 2002

                                                                                                                     Vinny Scorsone

      

DERIVE 

Con lodevole coerenza, il gruppo di artisti nisseni – Calogero Barba, Lillo Giuliana, Michele Lambo, Giuseppina Riggi, Salvatore Salamone, Franco Spena, Agostino Tulumello –, che della attenta analisi dei linguaggi visivi ha fatto un obiettivo programmatico, continua nel suo interessante percorso, offrendo un ulteriore saggio delle proprie capacità.

Dal segno alla parola (di cui però viene esaltato prevalentemente l’aspetto semiotico), l’attento e quasi ossessivo scandaglio delle infinite possibilità espressive e comunicative insite in ogni traccia, lettera o lemma, con tutto il relativo corteo di ambiguità polisemiche, viene riproposto con chiarezza dalla serie di opere in mostra alla galleria Studio 71, inusualmente realizzate all’insegna d’una estrema levità e d’una apprezzabile ironia.

Da “Le Falesie di Isma” di Lillo Giuliana – un bassorilievo in candido marmo di Carrara nel quale l’intonsa austerità del bianco pare violata da una pioggia di minute lettere cadenti – alla “Babele” di Michele Lambo – un plotter painting su tela rievocante il movimentismo visuale dell’avanguardia futurista, ma assolutamente attuale nella sua fedele rappresentazione della contaminata confusione verbale del momento –, dalle “Lettere da Bagdad” di Salvatore Salamone – reinvenzione filologica delle antiche scritture cuneiformi mediorientali, che pare levarsi come un grido d’accusa nei confronti di chi, in nome di millanterie pseudo-democratiche, ha recentemente permesso lo scempio delle antichità irachene – a “L’uovo del giorno” di Calogero Barba – una installazione pregna di senso d’umorismo che, con le sue uova incartate da fogli del quotidiano “Il Giorno” e poste all’interno d’una culla, la dice lunga sulle “sorprese comunicative” riservateci dai media –, da “Il tempo di sempre” di Agostino Tulumello – meticolosa riflessione sulla seriale iteratività delle misure temporali, cadenzata con segni rarefatti ma implacabili nella loro inappellabilità – a “Poesia” di Franco Spena – un “ready made” di grande impatto ottico realizzato accumulando frammenti di lattine in una valigetta, quasi a voler enfatizzare le potenzialità inespresse occultate nelle pieghe dell’attuale profluvio di parole – e fino ad “Ecstasis” di Giuseppina Riggi – un susseguirsi di leggiadre pennellate su supporti trasparenti in grado di ricondurre il gesto artistico alla sua essenza comunicativa più minimale, diretta ed aeriforme, in una libera riconquista dello spazio spesso negata o limitata da più classici supporti –, è tutto un continuum di spiazzamenti psico-sensoriali, nei quali il riguardante è come indotto dall’ambigua molteplicità significativa dei significanti, perseguito con un sense of humor e una giocosità (in cui non è difficile ravvedere qualche tangenza dadaista) a dir poco encomiabili.

Una mostra – questa della galleria Studio 71 – che conferma, una volta di più, come si possano trattare tematiche estremamente impegnative senza eccedere in tetraggini o tediosi rigorismi, ma piuttosto liberando la più fantasiosa ideatività in una sarabanda ludica (tuttavia mai superficiale) capace di coinvolgere a fondo gli osservatori nell’analisi di problematiche altrimenti del tutto trascurate dalla pubblica opinione.

 Salvo Ferlito

INCIPIT PER UN RITRATTO DI GRUPPO

FULL IMMERSION

 

L’instabilità sembra costituire fulcro su cui possano giostrare le “derive” della prassi  artistica, e dove, così come sottolinea Franco Spena, non sia più possibile riconoscere oggetti dell’arte posti a base d’una perennità espressiva, resa ormai impropria dall’iperbole della velocità. Allora questi autori, tutti cronologicamente accomunati dalla nascita negli ansiosi anni Cinquanta, trasfondono il loro itinerario creativo in un pieghevole ottico capace di entrare in sincretismo con pagine della comunicazione o del messaggio antropologico. Ciò realizzato in maniera intensa e personale, per cui il senso della ricerca, pur nella dimensione d’un agire artistico centrato nei canoni della sua stessa evoluzione, s’impone quale marchio non più eludibile. Una necessità prorompente si mostra subito in questa collettiva (“Derive”, galleria ‘Studio 71’, catalogo ‘Qal’at’ a cura di F. Spena, maggio-giugno): quella di subire il fascino del primigenio, d’una arcaica germinazione sia che ci si rivolga, come fa Calogero Barba, alla mitografia terrestre, sia che si utilizzi il marmo e il legno così come indicato da  Lillo Giuliana; sia chi (Lambo e Tulumello), attraverso plotter painting o tecniche miste, cerca armonie insite nella conflagrazione o nella iterazione. Altre volte, nell’agile pulsione e incisività di Giuseppina Riggi, il segno diventa messaggero trasparente, intermittenza e monocroma segnalazione di un effimero, quasi di un disagio coltivabile. Ancora la dimensione iconica, colma d’una ironia tragica, si esprime efficacemente nelle crude tavolette di Salvatore Salamone (“Lettera da Bagdad”, 2002). Qui segno e materia si associano nel trasmettere il corpo denso del loro lambire parole e gesti, ma anche nel denunciare una colpevole assenza. Una visibilità, che in Salamone s’attesta nell’interfaccia tra poetica classica e ricerca, posta in quel settore mediano offerto alla dimenticanza e all’irraggiamento perenne della parola.

Aldo Gerbino

L’arte della parola attraverso il tempo
Il centro culturale Studio 71 ospita una mostra di artisti nisseni. Le lettere e le parole al centro delle opere esposte si fondono per dare vita a differenti forme d’espressione. I sette artisti della scuola di Caltanissetta mantengono comunque una propria identità artistica

Le parole rappresentano il fulcro attorno cui ruota il tempo. È questo il messaggio di fondo delle differenti opere dei sette artisti della provincia di Caltanissetta esposte nella galleria e biblioteca d’arte Studio 71. La mostra dal titolo “Full immersion. Caltanissetta, viaggio nell’arte in una provincia in fermento” raccoglie le opere di Calogero Barba, Michele Lambo, Giuseppina Riggi, Peppe Sabatino, Salvatore Salomone, Franco Spena e Agostino Tulumello.
Nelle opere di Barba, i numeri disposti con un ordine preciso, quasi come se fossero all’interno di un orologio o di un calendario, si contrappongono al caos della vita quotidiana. In altre opere, la cera si fonde su dei grandi chiodi di ferro disposti quasi fossero delle lettere. La cera, duttile e malleabile, il ferro, duro e resistente, due materiali totalmente diversi, ma che trovano nella loro unione un perfetto equilibrio.
Lambo, nelle sue opere, mescola antico e moderno, passato e presente, sempre attraverso l’uso delle lettere. In una sorta di Totem ancestrale, l’autore unisce lettere di piombo, le stesse utilizzate in passato per la stampa, alle lettere di legno, da lui stesso create. Un mix temporale che raggiunge l’apice attraverso “Il libro celeste”, un’opera realizzata attraverso l’unione di materiali differenti. Il libro celeste non è altro che il “Libro”, al cui interno vi è racchiusa la verità inaccessibile. Poggiato su una mezza luna, al di sotto di esso, vi sono appunto delle lettere sovrapposte che formano parole indecifrabili.
Riggi rappresenta la scrittura dei sensi colta attraverso l’universo femminile. Nelle sue opere è chiaro il tentativo di voler cogliere le più intime e recondite emozioni.
Sabatino utilizza la tecnica del plotter, della stampa digitale, e della pittura su tela. Sullo scenario cupo del Golgota, dal cielo emergono lettere che formano la parola “speranza” in più lingue. La speranza di un futuro migliore che accomuna tutti gli uomini di tutti i tempi.
Le opere che meglio riescono a rappresentare il legame tra le differenti epoche della storia dell’umanità sono quelle di Salomone. Tavole e vasi di argilla cruda decorati da simboli in stile geroglifici o scrittura cuneiforme realizzati con ramoscelli d’ulivo spezzettati o chicchi di grano e semi vari. L’argilla cruda è estremamente fragile e rappresenta il valore della istantaneità, di un qualcosa destinato a non lasciare traccia; i ramoscelli d’ulivo rappresentano invece la durata del tempo, la secolarità. La forma delle opere richiama le nostre origini, dalle tavole della Legge di Mosè alle prime tavolette di argilla utilizzate per scrivere, per lasciare un segno destinato a durare attraverso i millenni. Passato e futuro, momentaneo e perenne: sono queste le contrapposte realtà della vita che l’artista riesce a cogliere attaverso le sue opere.
Spena utilizza la tecnica del plotter e del collage di lettere e parole ritagliate da pubblicità o da prodotti realmente in commercio. Sempre in risalto le lettere della scritta Coca cola, simbolo dell’era del consumismo. Una critica contro i costumi del tempo fatta attraverso delle lettere che unite sembrano non formare alcuna parola, ma la loro vicinanza è l’espressione di un’aspra rivolta contro gli usi e costumi della nostra società. In altre opere, l’autore dipinge delle linee, la cui unione crea dei tesuti. Nei labirinti della mente, il pensiero sintetizza il tempo, l’essenza, la memoria e l’infinito e il pittore continua a scrivere instancabilmente. Un gesto che si trasforma in segno, in colore, dando vita alle trame di un tessuto.
Infine, nelle operte di Tulumello, è possibile rivedere la natura che prende vita da elementi inanimati. I fiori non sono alro che fili di rame tenuti insieme dalla cera fusa e il loro prato una tela sfilata a mano. Al di sotto di essa si intravedono le lettere che descrivono il quadro.

24 ottobre 2002

Alessia Cannizzaro

Una ricerca che muove da un diverso orizzonte

Mi ha sempre dato un  certo fastidio rispondere alla domanda “che cos’è l’arte?”  che da diverse persone mi è viene più volte rivolta. Qualsiasi risposta mi è sempre sembrata riduttiva, limitativa, banale, senza fiato.  Per formazione e per necessità personale ho sempre ricercato risposte assolute, senza limiti, risposte che potrei chiamare, mutuando un aggettivo dal linguaggio visivo, plastiche. Così come ho psicologicamente rifiutato di volermi occupare di ricerche artistiche senza respiro, tutte racchiuse o addirittura rannicchiate in ambiti limitati, dove le parole necessarie a circoscrivere il campo d’indagine di solito sono molte di più di quelle che servono ad individuare l’originalità della ricerca. L’opera d’arte, ho sempre pensato, è un figlio maggiorenne che non necessita della tutela dei propri genitori. E nell’arte contemporanea figli che possono vivere in maniera autonoma, cioè senza la presenza dei genitori, non ce ne sono molti. Una buona parte della produzione artistica contemporanea è fatta di parole, ma artisticamente ha il fiato corto.

Forse questo pregio o difetto che sia, cioè quello di andare alla ricerca degli assoluti, deriva dal fatto di avere a che fare continuamente, come docente, solo con i capolavori del passato, con opere di grande respiro che hanno contribuito ad estendere il dominio del linguaggio visivo.  Di dovere trattare tematiche profonde e problematiche essenziali del tipo: perché il Rinascimento veneziano è incentrato sulla ricerca luministica mentre quello fiorentino sulla ricerca spaziale? cosa ha fatto di singole sensibilità, molte volte in rivalità tra di loro, un gruppo omogeneo che ha portato avanti una tematica comune? cosa hanno in comune diversi artisti di un comprensorio che molte volte ci permettono di potere parlare di scuola?  Le risposte possibili sono sempre due e tutte e due banali: la storia e il territorio.  Ma guardare alla produzione sommaria di un gruppo fa perdere di vista la ricerca individuale, la quale è quella che sommata alla ricerca di altre individualità, rende ricca la ricerca artistica di un comprensorio e alimenta la sensibilità di nuove generazioni.

Al contrario, quando guardiamo la produzione di un artista avvicinando troppo l’occhio al suo lavoro, allora la cornice dell’opera sparisce e molte volte l’opera comincia a fluttuare in un indistinto mare di possibilità semantiche, che maieuticamente estraggono dalla cultura del critico tutto un mondo di rimandi e di voli pindarici che estendono il campo di referenzialità della stessa opera ben oltre i confini culturali dell’artista per acquisire quelli del critico. Allora l’opera comincia a vivere di un respiro che non è il suo, l’artista rimane legato a quel tipo di alito vitale e stabilisce con quel critico un profondo legame spirituale, in quanto solo questi riesce a dare vita alle opere di questo artista.

Ho, molte volte, avvertito la limitatezza di una ricerca senza la necessità di dovermi soffermare, di doverci riflettere abbastanza, così come a volte ho percepito il sapore di una intuizione, di una sintesi visiva solo epidermicamente, avvertendo una sensazione profonda di completezza, senza sentire affiorare la necessità di una traduzione verbale o di una individuazione analitica degli elementi che la costituivano. Chi si esprime con il linguaggio visivo non ha bisogno di parole e chi ha bisogno di parole non avverte profondamente la completezza delle forme visive e necessita della loro traduzione. Ma la traduzione di una forma visiva in forma verbale è un’altra cosa, ogni traduttore è un traditore. Nella traduzione c’è molto del critico e poco dell’artista.

Ma cosa determina la scelta di un ambito di ricerca di un artista e cosa rende grande il respiro di una ricerca di contro ad altre che hanno il fiato corto?

Se a dare significato al significante è il referente, come sostiene qualche linguista, allora l’essenza  del linguaggio è nella realtà oggettiva e il dominio del codice che attribuisce valore semantico ad un significante è il risultato di un processo temporale che noi chiamiamo storia. Allora hanno ragione gli storici dell’arte ad avere individuato nella storia e nel territorio le risposte banali a questa problematica. Sono la storia e la percezione del comprensorio che modificano, plasmano lo spirito dell’artista, raffinano la sua sensibilità, mettono in evidenza particolarità che ad altri sfuggono. Sono questi piccoli particolari che alimentano lo spirito e che, dall’artista, vengono assorbiti, trasposti, macerati, per diventare forme oggettive, sintesi visive che ritorneranno sotto un altro aspetto a ridiventare realtà.

Ma allora che cosa determina nell’ambito di un comprensorio una rottura tra una generazione e un’altra? Perché un artista sente l’esigenza di dover cambiare? Cosa dà coraggio ad un gruppo di artisti per porsi in contrasto aperto con la cultura dominante? Se la storia è la stessa e il territorio pure, dov’è il quidquid che innesca il processo di cambiamento?

Tra gli artisti presenti a questa totale immersione nella realtà artistica nissena c’è un gruppo che potremmo definire di avanguardia per il comprensorio all’interno del quale hanno operato e continuano ad operare che possiamo individuare in Salamone, Spena e Lambo ai quali a poco a poco si sono aggiunti gli altri come Barba, Sabatino, Riggi e Tulumello. Un gruppo che si è posto in sintonia con le avanguardie artistiche europee e internazionali, che ha superato la dimensione campanilistica intrisa di figuratività di stampo guttusiano per proiettarsi in avanti, un gruppo che ha avvertito l’esigenza di aprire un discorso nuovo, di esplorare campi d’indagine per il territorio inesplorati, sapendo che sarebbe stato  bandito dall’ufficialità, che non avrebbe potuto varcare facilmente le soglie delle gallerie più rinomate. Ma il loro coraggio, fatto anche di impegno sociale e politico, è riuscito nel tempo a cambiare la fisionomia artistica del territorio e associazioni culturali come la Marcel Duchamp di allora continuano ad avere nella galleria di arte contemporanea QAL’AT una continuità che garantisce la forte presenza di un gruppo compatto che attorno a queste realtà culturali ha da sempre ruotato. Il solco che questi artisti, che possiamo cominciare a chiamare progenitori della ricerca artistica nissena, hanno tracciato è la strada che altri continuano a seguire e l’influenza di questi si è di già estesa anche ai paesi e alle province viciniori.

Questo gruppo ha avvertito l’esigenza di guardare la realtà con occhi nuovi, ponendosi come termine di paragone una scena molto più grande di prima. Il punto di repere non era più per loro Caltanissetta o Palermo, ma sono diventati Milano, Parigi, Londra, Berlino, New York.

La ricchezza di una ricerca sta nella realtà geografica, storica e culturale che cade sotto i gli occhi dell’artista, ma la cosa più importante è la maniera di come i suoi occhi guardano questa realtà, della sensibilità e della cultura che ci sta dietro questi occhi. Con questo continuo rimando si stabilisce un dialogo che non sempre è cosciente e molte volte è colorato da uno stato emotivo di accettazione o di rifiuto, di empatia o di alienità e pone la stessa realtà ora come estensione di sé stesso ora come riduzione oggettiva e fine razionale della ricerca.

Quel lembo di terra, quel comprensorio tra le Madonie e il Mediterraneo, che non è montagna nè mare, ma una serie ininterrotta di colline, di asperità che modificano continuamente il paesaggio, solcato da fiumi che segnano profondamente la terra, senza generarla ha generato invece quella cultura che ora qui si celebra.

La realtà brulla, fatta di stoppie arse che geometricamente si dispongono sulla terra a produrre tessiture, suggerisce segni che il piano di lavoro accoglie e l’artista sintetizza in forme strutturate e legate da una sintassi geometrizzante, alla ricerca inconscia di ordine e norma.

La stessa terra scavata dalla poca acqua che cade dal cielo e bruciata dal torrido sole estivo si apre in crepe profonde che richiamano grifi prodotti da sapienti mani su tavolette di argilla e denunciano ora i profondi fragori visivi e ora i delicati suggerimenti sottovoce con cui la natura ci parla.

Cieli di azzurri intensi, compatte texture cromatiche, solcati da nuvole filiformi fluttuanti in un indefinito campo visivo generano opere piene di tensione ove l’animo umano legge e proietta le proprie intime emozioni.

Contrasti cromatici profondi tra il compatto verde primaverile e la subitanea arsura del giallo estivo, letti da una sensibilità arroccata ad una percezione tattile della realtà generano escrescenze materiche intrise e cosparse da segni che la piccola storia di ciascuno di noi proietta in una dimensione atemporale.

Simboli e cromie, vissute nel quotidiano di una civiltà di oggetti lignei, utensili e arredi di uno spazio vissuto sul limitare dell’uscio ove la luce che fuori esplode penetra fioca tra le gelosie delle persiane modulano forme mutuate dalla realtà, le ristrutturano e le riscrivono con il contributo della memoria riducendo la realtà stessa a piano ove quanto assimilato incoscientemente viene proiettato.

Ma tra la realtà e la sensibilità molte volte si pone l’intelletto, con la sua forma plasmata da quanto acquisito e la percezione del reale si racchiude in ambiti che traspongono il percetto sotto le forme strutturate della scrittura, in una ricerca incessante di nuovi grafemi. Ora questi vengono organizzati in campi dalla stesura limitata, fortemente dominata dalla unità percettiva che mutua le forme dalla iridescenza cromatica della pubblicità e ora,  acquisendo molte volte valore plastico o fagocitando la dimensione temporale, generano opere appartenenti ad una trasposizione visiva del pensiero verbale. Ma nell’uno e nell’altro le opere prodotte  autogenerano il limite della propria espansione.

Un gruppo che è non è omogeneo, ma l’insieme di tante sensibilità impegnate in una ricerca visiva che portano avanti con coraggio e che, dopo tanti anni,  li pone come presenza forte nell’ambito del territorio isolano.

Gli artisti come i Giganti che attentarono al potere di Zeus traggono la loro forza dalla terra e solo la coscienza di avere dentro questa forza dà loro il coraggio di potere scalare l’Olimpo, anche se molte volte in solitudine.

Diego Gulizia

FULL IMMERSION

La profondità del mito

In  Iside e Osiride apprendiamo da  Plutarco che per gli Egiziani ad una geografia terrestre ne corrisponde specularmente una celeste, e che da questa terra celeste con i suoi astri, le sue costellazioni e divinità, piovono poi sul nostro mondo i diversi influssi che lo impregnano.

Nell’era moderna  solo attraverso un’archeologia del sapere è possibile pervenire ad una geografia  interiore del mito, che nella leggenda del ratto di Persefone, trova il suo epicentro mondano proprio nel cuore della nostra Isola, ossia nel nisseno.

Leggenda questa esemplare, dove due mondi, quello ctonio  e quello olimpico, bilanciati  da un perfetto equilibrio, (che prefigura qui quello del come in alto così in basso  della Tavola di smeraldo di Ermete Trismegisto ) trovano punti di contatto, che permettono di passare dall’uno  all’altro e viceversa, anticipando ancora temi della speculazione gnostica, quali quelli di un’anima di origine divina  catturata  dentro la profondità della materia, per poi ritornare  per volere, intercessione della divinità, sia pure ad intervalli alterni, nel grembo della madrepatria celeste.

Non poteva pertanto trovarsi titolo  più adeguato, quale quello di Full Immersion, per una mostra,( allestita alla galleria Studio 71 di Palermo), di un  affiatato  gruppo di artisti nisseni,  che sembrano trarre le proprie opere dal ribollire di quella profonda fucina, data dall’inconscio collettivo, i cui archetipi, come ha mostrato  chiaramente Jung, derivano proprio da ancestrali temi mitologici, religiosi, alchemici.

Diciamo subito allora che Full Immersion  è una  straordinaria mostra postmoderna, sicuramente una delle più forti  e convincenti da noi viste, per l’autenticità dei contenuti, che dalle opere in  esposizione, vien fuori in maniera davvero geniale.

Giacché in questa esposizione il motivo ricorrente è dato dal comune denominatore  dello scavo, dell’immersione in profondità, se si vuole, della ricerca inattuale  di un’archeologia del sapere, non possiamo meglio iniziare, nel passare  in rassegna  le opere , che da quelle di Salvatore Salamone:

degli scrigni, dei forzieri in legno, che aperti, mostrano tesori  inaspettati, libri  scolpiti  in argilla o terre crude, che richiamano  le antiche  scritture  e tavole della legge.

Qui comprendiamo  che il tesoro nascosto  e portato alla luce  è costituito dal Verbo, dal Logos, e che ancora questo tesoro dissotterrato si trova dentro di noi, dentro una scatola, un cassetto della nostra memoria, che aperto o forzato mostra i segni  della rivelazione abbagliante, di una lingua sacra, immortale, da cui ha avuto origine il mondo semplicemente  dalla pronuncia delle parole dell’Eterno.

L’Anima del mondo è questo stesso Verbo, che ossessivamente  Franco Spena in maniera sempre più  evidente, nelle sue ultime opere in digitale, tende visivamente a rappresentare  come parole in libertà , richiamandosi esplicitamente ai canoni futuristi  di una libera composizione poetica, preordinata  in ogni caso solo da quello Spirito “ che soffiando dove e quando vuole ”,  le fa lievitare  in una dimensione linguistica sconosciuta o, come suggerisce l’artista, dispersa, o ancora  precipitare dall’alto della loro discesa  in una sorta di caduta, che forse, se non azzardiamo troppo, vuole rappresentare un battesimo spirituale.

In ogni caso le opere di Spena, che già nei titoli fanno riferimento  alle immagini sacre od icone,  se non addirittura al messale, non sono esenti  da una certa mistica, che in queste opere in mostra, viene chiaramente allo scoperto, nella rappresentazione  e compenetrazione  anche di una molteplicità  delle lingue, originate dalla trama, dall’intreccio  sincronico delle lettere dell’alfabeto

Una vera e propria sorpresa poi  costituiscono per noi le opere di Peppe Sabatino, che qui sono al meglio rappresentate.

Una in particolare  ha colpito  la nostra attenzione, per una palese inquietudine che da essa  traspare, nonché per una profondità d’introspezione  davvero indiscutibile.

In quest’opera infatti dal titolo  “ Trinus “, l’artista  ripropone e reitera la propria immagine, in una sorta  di imitazione di Cristo, all’interno di un trittico.

L’artista infatti vuole mostrarsi qui anche come l’Artefice Assoluto, Dio, e per tale motivo  la sua anima  è triripartita e una. Queste tre parti  : la razionale, la psichica, e quella terrena, si sono riunite in un solo uomo Gesù, che di Sé non può mostrare nella Sua singolarità che un’immagine deformata, o per usare un termine jungiano, un’ombra appena velata d’inquietudine, quel lato oscuro dell’essere, che occulta le altre sue componenti  non visibili, celate.

Da quest’opera  dunque emergono, in maniera sconcertante , contenuti assai precisi di quell’inconscio collettivo, che l’autore della psicologia del profondo  per prima aveva analizzato, come simboli gnostici del Sé.

 Con le opere di Michele Lambo ci troviamo in presenza di un autentico maestro  che, nella realizzazione di numerosi libri oggetto, ha dedicato anni di laborioso lavoro.

In questa mostra , sicuramente, una delle opere più suggestive , è quella  che rappresenta  un emisfero concavo costituito da una grande coppa a forma di cratere, che scultoreamente fuoriesce dal quadro.

Per noi, senza alcuna esitazione, quest’opera potrebbe rappresentare il manifesto di una rassegna, a cui si è dato il titolo di Full Immersion, giacché alla nostra immaginazione suggerisce subito  una sorta di fonte battesimale scavato  nella profondità oscura, vuota della terra, quel cratere  di cui parla Ermete Trismegisto nel Pimandro, ossia il vaso ermetico riempito di nous, che Dio manda agli uomini affinché conseguano ennoia

( l’intelletto) e lo pneuma ( lo spirito di profezia e di dottrina), ma che ancora richiama alla nostra  mente  la coppa altare  delle terrificanti visioni di Zosimo, alchimista e gnostico del III secolo, e la voragine  nera  dentro  cui  è sparita Persefone, rapita  dal dio degli Inferi.

In opposizione a quest’opera, possiamo affiancare in maniera complementare  Il libro celeste , un grandioso libro oggetto che poggia su una mezza luna sospesa nell’aria.

Ancora qui, nella realizzazione di quest’opera, Lambo ha delle intuizioni straordinarie, giacché questo libro celestiale per i musulmani esiste davvero. E’ il Corano detto infatti  comunemente Il Libro ( Al Kitab ), la cui dimora  primigenia si trova infatti nel cielo , in quanto tale  Libro viene inteso  non come una mera opera di Dio, come la creazione del mondo  o le anime degli uomini, bensì come un attributo stesso della Divinità, come per l’appunto  la Sua  eternità o la Sua ira.

Ammaliati dal fascino di questo grandioso libro d’artista, realizzato da Lambo, non possiamo che passare alla lettura della Lectio sacra di Giuseppina Riggi, un’opera questa, tra le più riuscite dell’artista, che in un dittico, vuole rappresentare il volto antropomorfo  della  Divinità, a cui è possibile risalire  attraverso l’immagine dell’uomo, fatta a somiglianza di quella dell’Eterno.

Da qui la spiegazione della lezione sacra, svolta pittoricamente nelle due parti del dittico, come a  voler suggerire un’ unione magica, tra il creatore e la sua creatura, intravista nella loro unica essenza di luce.

Per concludere non possiamo che accennare, sia pur brevemente, alle opere di Agostino Tulumello e Calogero Barba.

Il primo con perizia davvero straordinaria dipinge quelle , che possiamo definire, le sue rigorose tessiture  auree,  ottenute  da una distillazione assai rarefatta  di una materia pittorica e di un segno assottigliato fino al suo limite grafico, il secondo , invece, che nell’impiego del digitale e di diversi interventi sulla tela stampata, ossessionato dal tempo, utilizzando i numeri dell’orologio, va alla ricerca  dell’origine di un testo o di un avvenimento, inseguendo all’indietro, in una sorta di scavo temporale, che è anche uno scavo archeologico del sapere, l’iniziale e fatidica ora x .

                                                                               PIERO MONTANA

             Viaggio al centro della Terra

“La Scuola di Caltanissetta” mostra geo-grafie siciliane

cura e testo di

Miriam La Rosa

 Calogero Barba – Lillo Giuliana – Michele Lambo – Giuseppina Riggi 

Salvatore Salamone – Franco Spena – Agostino Tulumello

Cine-Teatro Marconi di San Cataldo

A proposito di arte in Sicilia: quasi mezzo secolo di storia.

 

“Viaggio al centro della Terra” è il titolo di un romanzo fantastico del 1864 dello scrittore francese Jules Verne. L’opera racconta le vicissitudini dei protagonisti, il professore di mineralogia Otto Lidenbrock ed il nipote Axel (narratore interno della storia), impelagati in un viaggio dalla meta sensazionale.

Il punto di partenza di questa avventura è il ritrovamento di una pergamena contenente un messaggio cifrato scritto in caratteri runici. Il testo, tradotto in latino, racchiude le indicazioni per raggiungere il centro della Terra, attraverso un vulcano, lo Snaeffels, in Islanda. Il manoscritto è frutto dell’esperienza di un alchimista islandese del XVI secolo, tale Arne Saknussemm, autore effettivo dell’impresa oltre che di una serie di segni sulle caverne, incisi per facilitare il compito dei suoi successori.

Ma cosa c’entra, tutto ciò, con una mostra di arte contemporanea?

I protagonisti di questa esposizione, che riporta il medesimo titolo del romanzo di Verne, sono i sette artisti de “La Scuola di Caltanissetta”: Calogero Barba, Lillo Giuliana, Michele Lambo, Giuseppina Riggi, Salvatore Salamone, Franco Spena e Agostino Tulumello. Un gruppo che milita da tempo entro i confini della ricerca artistica in territorio siciliano.

Il parallelismo con il riferimento letterario risiede nell’intento e nel contenuto della mostra stessa. Lo scopo ricercato è quello di rendere nota alla collettività la storia de “La scuola di Caltanissetta”, attraverso l’esposizione di un complesso di materiali documentaristici sul gruppo: i numeri delle riviste redatte nel corso dell’esperienza editoriale ed altre testimonianze sugli eventi culturali cui questo, negli anni, ha preso parte; oltre che l’esposizione di quattordici opere, due per ogni artista, emblema della poetica comune: l’espressione per mezzo del segno. Sfruttando le soluzioni architettoniche offerte dalla struttura entro cui la mostra è allestita, l’accostamento agli oggetti in questione avviene per gradi, attraverso un percorso su di una passerella sopraelevata che, dopo aver consentito al visitatore di visionare i documenti storici, lo conduce entro uno spazio sottostante, atto ad ospitare le quattordici opere. La metafora del viaggio prende corpo: un viaggio attraverso l’arte, volto a scoprirne i meccanismi e svelarne le possibilità; un viaggio al centro della Terra e della Sicilia; un viaggio che libera un universo di segni e mostra geo-grafie siciliane.

L’inizio di questo cammino ha avuto luogo agli albori degli anni Settanta, a Caltanissetta, presso i locali della Galleria “Il Re d’Aremi”: un’antica corniceria entro cui, sotto la guida di Franco Spena, si sono soffermati scrittori, poeti, musicisti e teatranti per interrogarsi sul proprio ruolo e sulla possibilità di trasformare la realtà attraverso l’ausilio della cultura. La data che determina il passaggio dalle parole ai fatti è il 1974, anno in cui nasce “Il Foglio d’Arte”: Rivista che sancisce un impegno sociale concreto. I numeri del mensile si succedono regolarmente per cinque anni, veicolando messaggi di valenza politica, artistica e culturale. Gli articoli pubblicati toccano gli argomenti più svariati, puntando il mirino sulle questioni regionali, per poi allargarlo a tematiche nazionali ed internazionali. Protagonisti di questa stagione iniziale insieme a Spena, gli artisti Michele Lambo e Salvatore Salamone, primi tre componenti ufficiali di quella che diventerà, a pieno titolo negli anni Novanta, per definizione della critica “La Scuola di Caltanissetta”. Per mezzo di questa “tela sperimentale” si tessono delle occasioni di crescita e di confronto con numerose altre personalità del mondo dell’arte e della cultura. Ulteriori sedi della Rivista vengono costituite a Catania e a Palermo, attraverso la collaborazione con la scrittrice Esther Bartoccelli e con il critico d’arte-artista-antropologo Francesco Carbone, oltre che a Firenze, per stabilire un ponte di collegamento con le esperienze artistiche locali, cui i tre pionieri del gruppo si sentono vicini. Il loro modo di “fare arte”, infatti, prende le mosse dalla Poesia Visiva fiorentina e dalle esperienze verbo-visuali, per poi approdare verso un orizzonte della parola più ampio, che abbraccia l’area d’azione palermitana: “Antigruppo” di Ignazio Apolloni (poi segnato dalle conseguenti mutazioni linguistiche in “Intergruppo” ed “Intergruppo Singlossie”). Al termine dell’avventura de “Il Foglio d’Arte” Lambo, Salamone e Spena, noti sotto la denominazione di “Collettivo Ex Foglio d’Arte” stilano una sorta di primo (ed unico) manifesto, in occasione di un intervento tenutosi all’Accademia di Belle Arti di Palermo, sotto la guida di Francesco Carbone. Siamo alle porte degli anni Ottanta, quando i tre artisti intraprendono una nuova avventura nel campo dell’editoria. Nasce un’altra Rivista, “Cartagini. Quaderni di politica cultura arte”, anch’essa destinata a cessare, ben presto, le pubblicazioni. La ricerca, tuttavia, procede ininterrottamente e, con questa, lo sviluppo mentale dei tre “artisti-scrittori”, portati a conoscere, per una serie di coincidenze, le sperimentazioni legate alla parola in area lombarda. A seguito dell’incontro con Rossana Apicella, artista, semiologa e critico, attiva in territorio bresciano, il gruppo sposa le teorie legate alla Singlossia: un concetto inteso come mezzo d’espressione della Poesia Visiva; fusione e punto di congiunzione del linguaggio idosemantico (visivo) e del linguaggio fonosemantico (verbale). Attraverso e nella singlossia i due linguaggi divengono convergenti e complementari, così che l’uno non sia comprensibile senza la presenza dell’altro. La Singlossia nega di avere qualsiasi precedente o ascendenza, ponendosi come possibilità per la ricerca di nuove strutture linguistiche, caratterizzate dal superamento della Poesia Lineare. In quest’orbita si colloca l’opera intera de “La Scuola di Caltanissetta” i cui restanti componenti giungono, ciascuno con il proprio bagaglio esperienziale, a partire dalla fondazione del centro culturale Marcel Duchamp.

Volutamente intitolato all’artista francese, questo “magazzino di immagini e parole” nasce a Caltanissetta nel 1984 con l’intenzione di occuparsi esclusivamente di attività artistica e di diffondere le tendenze contemporanee legate alla scrittura, trasmettendo, in un’atmosfera privata e attraverso l’assidua frequentazione da parte degli intellettuali, una forma di discontinuità con la tradizione accademica e formale presente nel resto della città. Il principio guida della poetica enunciata dal gruppo, ormai al completo, è ancora la specificità singolare e costante del segno.

All’inizio degli anni Novanta, tuttavia, l’associazione chiude i battenti e l’attività prosegue attraverso canali di diffusione alternativi fino al 1993, quando viene istituita Qal’at, una galleria coperta dall’associazionismo, creata per dare un seguito alla Marcel Duchamp.

Le mostre divengono, ora più che mai, il punto di forza dei sette artisti.

Col finire del ‘900, Barba, Giuliana, Lambo, Riggi, Salamone, Spena e Tulumello seguitano a trasmettere la propria intuizione attraverso le opere, in una comunicazione scritta, continua e ragionata. L’obiettivo comune rimane quello di veicolare e sostanziare un messaggio attraverso l’arte.

Intorno al 2004-2005, anche l’attività di Qal’at trova il suo culmine. Il gruppo perde momentaneamente l’ennesima sede e, nell’attesa di intraprendere una nuova avventura, il lavoro prosegue.

L’oggetto d’arte dei sette artisti rimane immutato. Le ricerche si collocano entro un percorso che ha origini remote: una riflessione sulla quale si sono concentrati, sin dall’Ottocento, personaggi del calibro di Mallarmè ed Apollinaire; una scia che ha avuto seguito nel Novecento con i Futuristi e i Dadaisti, che ha coinvolto le correnti neo-avanguardistiche del dopoguerra, i Concretisti ed i Poeti Visivi in tutta Italia e nel resto del mondo.

Il resoconto è il riassunto di un viaggio in cui il linguaggio assume una forma concreta, imponendosi nella sua dimensione fisica attraverso le opere: la configurazione tangibile di un racconto criptato dal potere dell’arte.

Il principio è il mito della parola e della scrittura. L’origine è il segno.

          

ABSTRACT

 A Journey to the Centre of the Earth (1864) is the title of the science fiction novel by Jules Verne. The novel begins with the discovery of a parchment containing an encrypted message which provides instructions to reach the center of the earth. 

The protagonists of the exhibition are the seven artists from “La scuola di Caltanissetta” (The school of Caltanisssetta): Calogero Barba, Lillo Giuliana, Michele Lambo, Giuseppina Riggi, Salvatore Salamone, Franco Spena e Agostino Tulumello.  This group has played and still plays a key role in contemporary arts in the Sicilian landscape. The parallelism to the novel finds its aim in the content of the exhibition itself. The purpose is to use the exhibition to make the community aware of the history of “La Scuola di Caltanissetta”. This is achieved through the use of documentaries about the group, such as journals written during the course of their publishing experience and some of the cultural events this group took part in, and the display of 14 pieces of work, two per artist. These works are the symbol of the group’s poetics – expression through the sign. The architecture of the facility, the recently-restored Cine-Teatro Marconi in San Cataldo, lends itself to the exhibition since the audience is led inside as if it were in a journey. Walking on a descending fly gallery people gradually approach the objects in question. First, they are exposed to historical documents about the artists; then, they are led into a lower level where the 14 art pieces are presented. The metaphor of the journey takes shape: a journey through art, aimed to find out its mechanisms and to reveal its possibilities. A to the centre of the earth and of Sicily. A journey which liberates a universe of signs and shows the core of the Sicilian landscape and of its visual arts.

http://issuu.com/kalosenzo/docs/www.calogerobarba.it

DI – STANZE E DI PAROLE

C’è una processualità nell’ordine delle cose, come nel procedere della vita, che sottende fatti ed eventi, il fluire e il contrapporsi delle idee, come l’incontrarsi. Il segreto e il misterioso umore che anima una scena nella quale lontananze e vicinanze rompono i cardini delle  coordinate per divenire parte di un unico orizzonte visivo.

Poiché ciò che rende le distanze, ciò che separa, nel caso di questo gruppo di artisti, finisce per creare le pagine distinte e sequenziali di un quaderno sul quale scrivere e sfogliare gli appunti di un diario che dagli inizi degli anni sessanta si spinge fino ad oggi.

In effetti ciò che elimina le distanze è dato da quella imponderabile fenomenologia dell’incontrarsi che fa dell’esperienza il legame, il collante per cui sensibilità e caratteri diversi finiscono per divenire le facce di un unico sistema di linguaggio che esprime il bisogno di dire, di comunicare, di essere in un territorio “lontano e solo” come quello collocato all’interno della Sicilia. La parola diviene così il tramite, il segno di un incontro che vede Michele Lambo, Salvatore Salamone, me ed altri, formarsi in una “scuola” di rapporti reciproci, di esperienze e di idee che, negli anni, divengono produttori di eventi e iniziative multidisciplinari che da Caltanissetta definiscono caratteri e identità che, per contaminazioni e sbordamenti, sconfinano in Sicilia e nel territorio nazionale.

Così dall’ACAN, (Associazione Culturale Artistica Nissena) vero e proprio laboratorio interdisciplinare di dibattito e sperimentazione, l’organizzazione di ben undici rassegne d’arte nazionali, ci mette in contatto con la fenomenologia dell’arte degli anni sessanta nei quali matura la formazione di quella che viene considerata la parte storica di un gruppo che, negli anni, si va caratterizzando di una particolare mappa teorica che delinea i caratteri di una ricerca artistica che trova spazio nel panorama della Scrittura Visiva.

Le di-stanze, così, divengono luoghi di riflessione, di riadattamenti dei sistemi di relazione, “stanze” collegate da porte che, via via, si aprono a forme di comunicazione diverse. E’ così che diviene spazio di formazione e di incontro la Galleria “Il Re d’Aremi” frequentata da scrittori e poeti, personalità della cultura e spazio di fermenti dal quale nasce “Il Foglio d’Arte”, una rivista che, per quasi tutti gli anni settanta, ci mette in contatto con le esperienze culturali ed artistiche nazionali e  con quelle  forme di espressione che hanno finito per segnare profondamente il nostro modo di fare arte, in particolare attraverso l’utilizzo di una parola capace di andare oltre la linearità per aprire azioni di dialogo con le immagini. E’ il periodo nel quale grandi amicizie sono divenuti elementi importanti di formazione come Carmelo Pirrera, Marco Bonavia, Alfonso Campanile,  Francesco Carbone, Nat Scammacca e Ignazio Apolloni. Sono gli anni anche nei quali ha avuto grande influenza su di noi  la “Singlossia” (sintesi di linguaggio fonosemantico e idosemantico) di Rossana Apicella, una studiosa padovana che ci ha coinvolto nelle sue mostre in Italia e in Francia. Agli inizi degli anni ottanta, siamo stati proprio noi, insieme con Francesco Carbone e Ignazio Apolloni a organizzare le mostre della “Singlossia” in Sicilia che ha fatto tappa anche ad Enna. E’ del 1981 la cartella “La Nuova Scrittura” che abbiamo realizzato con Francesco Carbone e presentato in occasione dell’Incontro tra i popoli del Mediterraneo a Mazara del Vallo.

Chiusa l’esperienza de “Il Foglio d’Arte”, dopo la breve parentesi della rivista “Cartagini” ci ha visto insieme, ancora una volta, l’Associazione Marcel Duchamp (1984 – 1993), Magazzino di Immagini e Parole che ha segnato, con iniziative e appuntamenti settimanali, un modo e uno stile di fare cultura e arte. La Duchamp è divenuto un luogo di passaggio e un coagulo di idee, un luogo nel quale si è definita la nostra identità artistica e critica, che ha determinato un’esperienza culturale che ha improntato il modo di essere artisti nel quale ci siamo riconosciuti e nel quale abbiamo operato quelle scelte che ci hanno fatto definitivamente trovare quei segni che ci hanno condotto verso la Scrittura Visuale. E’ in quegli anni che si aggiunge a noi Agostino Tulumello la cui  ricerca di registrazione del tempo si esprime in pagine di scrittura nelle  quali la parola diviene elemento ritmico che si ripete e modula calibrando colore e materia. Sono gli anni anche nei quali si sono avvicinati alle nostro lavoro di ricerca Calogero Barba e Giuseppina Riggi che, a seguito dei rapporti con Francesco Carbone, hanno trasformato in segno-parola la loro esperienza plastica. Calogero Barba calandosi nella cultura e nel mito del tessuto antropologico dell’agro contadino, Giuseppina Riggi che si interessa al corpo che genera segni che si connotano di una fisicità che attraversa lo spazio.

Importante è stata per noi la mostra “Sensi di pace annunciata”, (1993) curata da me a Montedoro, che ci ha dato modo di riconoscerci come gruppo più ampio di lavoro con una unità di intenti e  di scelte linguistiche che hanno dato vita a mostre come “Lumina / Limina”,  “Fuoritesto”,  “Parole in Vista”, “Scritture Celibi” (1997), al Collegio Cairoli, quest’ultima, presso l’Università di Pavia, dove in precedenza eravamo stati con la mostra “Immagine Riscritturale” (1981).  Attraverso questi eventi si è definita sempre di più la nostra identità di operatori della “Scrittura”. In particolare è stata importante “Parole in Vista”, nella quale tracciavo un panorama del Libro d’Artista e della Scrittura Visiva in Italia, poichè ci ha messo in contatto con artisti della “Poesia Visiva”, come Eugenio Miccini, Lamberto Pignotti, Vitaldo Conte che ci hanno coinvolti in diverse operazioni riguardanti la Scrittura Visiva.

Una “scrittura”, la nostra che, andando oltre i dettati della “Poesia Visiva”,  ricerca l’oggettualità e la materia come elementi determinanti che pongono l’attenzione verso un colore dai forti accenti solari e mediterranei; una “scrittura” che si offre alle contaminazioni dello stile e della forma, delle tecnologie, come dell’antropologia e della storia. Una scrittura che, per sbordamenti, sconfina dalla pagina per divenire anche installazione e scultura, come nei caratteri scavati delle tavolette d’argilla cruda di Salvatore Salamone, nelle modulazioni della carta o nelle concrezioni del cemento di Michele Lambo che negli ultimi anni lavora anche con i video, come quella scomposta e assemblata coi ritagli di lattine nelle mie opere, come quella presente nelle opere di Lillo Giuliana, che si aggiunge a noi sul finire degli anni novanta, che scolpisce lettere di marmo che sgorgano dall’interno della materia.

Sono “stanze”, contributi alla ricerca di un unico testo poetico che, attraversando anche l’attività del Qal’At Artecontemporanea, nella gran parte degli anni novanta,   muta e prende forma in un tempo nel quale la “scrittura” è sempre più immagine che si lascia sedurre,  contaminare ed esprimere da una tecnologia che ne fa desiderio e spettacolo.

Sono di-stanze che per avvicinamenti successivi determinano un percorso comune, stanze per incontrarsi, attraverso uno scrivere che visivamente si modula, in questa occasione, nelle stanze di Palazzo Pollicarini, attraverso le opere di un gruppo di artisti che, lavorando spesso insieme,  hanno finito per  riconoscere nel proprio lavoro segni di identità che possono appartenere a una scuola.

                                                                                                 FRANCO SPENA

 

PRATICHE DI SCRITTURA
Dalla scia di uno scafo, all’orma sulla sabbia, dall’inchiostro sulla carta all’incisione s’un tronco, dalla trama di un tessuto allo scalpello sulla roccia, ogni percorso vi permane a seconda della fluidità o fissità della materia.
In essa sussiste la sostanza del pensiero nella traccia, la testimonianza del percorso intrapreso, la memoria dell’esperienza attraversata: la materia è portatrice fenomenica della Storia, ma è anche, al tempo stesso, apportatrice di segni, per cui depositandoli sull’esistenza, costruisce a sua volta un tratto di storia.
È la materia che consente al gesto effimero tracciante la permanenza del segno nella materia. Il segno tracciato nella materia esce dalla trascendenza e permane nell’immanenza, superando l’asintoto tra oggetto e soggetto, tra esistenza ed eternità, tra finitudine ed immensità. Grazie al segno, il pensiero può attraversare l’esperienza e divenire profezia (altrimenti ritornerebbe nell’iperuranio immaginifico delle idee) e divenire finalmente scrittura: lirica di chi è capace di superare l’abisso sopra un asse di legno, di sfondare i sigilli dell’oblio, di comunicare agli uomini le arcane regioni che la ragione ha nascosto in fondo ai loro cuori, ove la speranza scopre la verità ed apre alla libertà.
Nella potenzialità comunicativa della scrittura vi è la forza capace di costruire poesia. Qui l’individuo esce dalla sua solitudine e diviene persona, unica ed irripetibile nell’eternità del pensiero di Dio e nell’inequivocabile singolarità della scrittura: il pensiero ha tracciato un segno nella materia.
È la singolarità della grafia!
Non può questa restare astratta, incorporea virtuale: essa è concreta, fisica, reale. Ha un luogo, un percorso, un territorio. Esiste in sé, permane per sé e caratterizza di sé ogni intenzionalità e contesto culturale.
Pratiche di scrittura sono segni tracciati da scritture di persone che vivono la storia al centro del Mediterraneo e si aprono oltre le “colonne d’Ercole” ed al di là della “volta di Atlante”, superando “il Tartaro e lo Stige”. Sono percorsi trovati nell’esistenza dell’isola di Sicilia, che lasciano una traccia nel continente di Trinacria, dove la forza effimera del gesto permane nella grafia.
L’esperienza del Gruppo di Caltanissetta (Calogero Barba, Lillo Giuliana, Michele Lambo, Giuseppina Riggi, Salvatore Salamone, Franco Spena, Agostino Tulumello) propone i diversi percorsi nei loro personalizzanti linguaggi, in cui la materia è in-abitata da grafie. Ciascuno di loro con Pratiche di scrittura condivide un frammento della propria esperienza, espandendo la propria esistenza, esponendola nella grafia estesa nella realtà fenomenica. Ciò che ammiriamo in questa mostra è proprio la condivisione della ricerca condotta da ciascuno di loro, proponendola quale è pervenuta qui ed oggi.
Sono esperienze di linguaggi diversi che trovano nella compartecipazione dei diversi percorsi un denominatore comune e che si presentano qui quasi come una sosta nel corso di un cammino, le cui tracce in-scrivono nuove ed eloquenti pratiche di scrittura.
Giuseppe Ingaglio

INDAGINI VISIVE

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